Quando è arrivata all’Hewo per essere curata, oltre vent’anni fa, non immaginava la strada che avrebbe percorso e dove questa l’avrebbe condotta. Guarita dalla lebbra, ha studiato ed è diventata la donna che è oggi, madre felice di una “figlia cresciuta bene”, direttore amministrativo, punto di riferimento per le donne della sua terra.
“Le donne hanno ancora tanti problemi in Etiopia. Ci vuole tempo per il cambiamento, ma si stanno facendo politiche” per incentivarne la presenza nel mondo del lavoro e in posizioni di responsabilità. “Prima stavano solo a casa, ed è ancora così nei villaggi. I genitori non andavano a scuola, la mamma non lavorava fuori e non c’era tempo per andare a scuola. Ora tutti vogliono studiare, adesso le cose stanno cambiando”, racconta.
Non è facile, comunque, ricoprire un ruolo come quello di Letay e la cosa più complessa è “guidare le persone perché vengono da luoghi diversi, hanno abitudini e caratteri diversi”. Una lezione che devono imparare anche i volontari: “Da voi in Europa è tutto più veloce, ma questa è l’Africa … Chi viene la prima volta deve capire dove si trova. Per lavorare insieme bisogna conoscere le usanze, le leggi, capire cosa fare e cosa no. Bisognerebbe stare due o tre giorni ad osservare per comprendere come funziona Hewo”, dice.
I suoi pensieri, tutti i giorni, sono per la comunità: “Qui sto accanto ai poveri. Non lascio perché è una responsabilità: Io domani passo, muoio, lascio tutto. Se guardo intorno a me, vedo poveri che non mangiano e quando posso vivere con il mio stipendio non chiedo a Dio altro”.
In questa oasi strappata al deserto, il luogo che ama di più è l’asilo “perché è li il futuro dell’Etiopia, nello studio … la scuola ti salva la vita come la chirurgia”. La povertà non è solo “mancanza di soldi”, ma è anche questione “di mentalità” e “serve educazione”. Secondo Letay è importante che anche chi non è medico venga a conoscere questa realtà. L’ospedale, gratuito, è fondamentale per Quhià, che “era un villaggio dove non c’era niente, terra vuota”. I pazienti vengono accolti come “fratelli” ed il rito del caffè ai cui partecipano malati e personale è il simbolo di questa unione. “Arrivano qui che stanno morendo, gli altri ospedali gli danno tre giorni (di vita) e li rifiutano”. Se Hewo chiudesse, sottolinea Letay, “questi pazienti non saprebbero dove andare. Gli ospedali li accolgono per due o tre giorni, ma non ci sono strutture che lo fanno per mesi o anni”.
La sua speranza per il futuro? “Che Hewo continui così, che non muoia. Anche quando non diamo un servizio è un po’ come morire”. Perché non fornire un servizio indispensabile per la comunità significa morire. Non sono solo i fondi, i soldi, a fare la differenza, “si può aiutare in tanti modi”. Certo le risorse sono importanti e Letay sa che non è semplice raccogliere quanto serve alla vita di questo luogo, neppure in Italia. “Ma uniti si vince, Italia ed Etiopia. Moriamo insieme, piangiamo insieme, viviamo insieme”.
