A Place of Hope, l’Hewo nelle parole di Belay Mesfin

“This is a place of hope, un luogo di speranza”. Il Dr. Belay Mesfin, medico etiope, ma nato in Eritrea, dirige l’ospedale Hewo di Qhuià da molti anni con il supporto dei donatori e dei volontari italiani.
Ha studiato in Europa, nell’allora Cecoslovacchia, a Bresalvia, ed ha curato la sua gente nei luoghi più remoti e complessi del paese, nel Tigray come al confine con il Sudan. Si guadagna meglio, forse, nelle strutture private che stanno nascendo in Etiopia come in molti altri paesi africani, ma Belai è felice di essere stato inviato qui dal Governo, dove il suo lavoro può fare la differenza per pazienti che altrove non avrebbero possibilità di essere assistiti. “La mia speranza è aiutare la gente. Non mi interessa il denaro”, spiega.
A Quihà sa di potere dare un contributo importante: “Molti pazienti arrivano qui pensando di essere morti e [invece] tornano ad avere speranza”, racconta. Pazienti con gravissime patologie, come Hailé, anziano, malato di HIV, con una grave infezione delle pelle ed il destino segnato, ma che oggi è ancora in vita dopo alcuni mesi di trattamento. Pazienti che arrivano da molto lontano per essere operati, fin da Adua, e che tornano a casa a piedi dopo l’intervento. Pazienti poverissimi che spesso non possono accedere altrove alle cure mediche. “Non voglio che [la gente] stia male perchè non ha soldi”, questa è lezione che Belai dice di aver ricevuto nella sua esperienza europea.
Ma il compito non è facile perché i problemi di gestione dell’ospedale sono sempre molti: il personale che non è mai abbastanza, le difficoltà nel trattare malati complessi come quelli affetti da TBC che richiedono isolamento ed, ovviamente, il budget. “Ma la fratellanza permette di superare i problemi. Qui tutti danno una mano, tutti fanno tutto [per gli altri]”, dice Belai, ringraziando Carlo Travaglino, maestro di umanità, ed i medici italiani per lo scambio di esperienze e conoscenze che permette all’ospedale di continuare a crescere.“La medicina è un lavoro di squadra e qui si lavora tanto. Lavorano tutti anche quando sono stanchi”, aggiunge.
Cosa chiede al futuro? All’Italia? Di continuare a donare, di non soffocare la speranza.