Il diario di Maria, giovedì

Giovedì

Durante la mattinata, tra un’operazione e l’altra, Mauro, Angelo ed io troviamo il tempo per
fare una capatina alla scuola. La scusa è quella di distribuire caramelle e fare foto per il
prossimo calendario del 2016, in realtà andiamo a caccia di coccole e abbracci. Non so se ci
sono parole adatte per descrivere i bambini di qui, so solo che due minuti passati in mezzo a
loro mi fanno lo stesso effetto di una barretta di cioccolato fondente: la felicità, ti ritrovi a
ridere senza motivo.
Torniamo in sala operatoria, per questi ultimi giorni abbiamo lasciato le operazioni più
semplici, quelle che non richiedono un controllo postoperatorio a lungo termine, dato che tra
tre giorni partiamo. Sigh.
Sul finire dell’ultima operazione (una cisti dell’avambraccio) ottengo l’autorizzazione per
mollare il campo operatorio ed andare con Claudio a Quiha. Anche stavolta ci accompagna
Letai, andiamo a piedi.
Attraversiamo le strade sterrate del paese, continuo a stupirmi per i grandi cancelli di ferro
che spiccano tra le mura di pietra spesso incomplete. Varchiamo la soglia di uno di questi
maestosi cancelli, nel cortiletto varie donne intente nelle loro attività: c’è chi ricama, chi
cucina, chi lava; una di loro ci accoglie e ci guida in una stanza: è particolarmente bella, ha le
pareti dipinte di azzurro intenso, mobili in legno scuro, ci sono anche un divano e delle
poltroncine e, in un angolo, un letto con coperte colorate. Anche qui il pavimento è in terra
battuta, ma stavolta ricoperta da uno strato di plastica decorata. Ci accomodiamo sul divano.
La padrona di casa Asmerat (credo) è una donna dal portamento elegante, ci offre il caffè e un
pranzo a base di enghera e shirò. Nella preparazione è aiutata da un’altra donna, che rimane
silenziosa in un angolo della stanza.
Antefatto raccontatoci da Letai il giorno prima: Qualche mese prima giungono all’Hewo
Hospital una donna con AIDS avanzato e la figlia di 10 anni, sieronegativa. La malata viene
curata e inizia la terapia farmacologica per l’AIDS. Vengono da un paese lontano e non
conoscono nessuno a Quiha. Asmerat, che lavora all’Hewo, decide di accoglierle in casa, gli
offre vitto e alloggio e si prende cura della bambina, specialmente nei primi tempi, quando la
madre è ancora piuttosto debole. Man mano la donna migliora e la bambina si abitua al nuovo
ambiente, comincia ad andare alla scuola di Quiha. Ma la casa di Asmerat è piccola e le
persone che ci vivono sono tante, cosi, da qualche settimana, la donna e la bambina si sono
trasferite in una stanza alla periferia del villaggio, rimane un mistero chi sia a pagare l’affitto.
La donna nell’angolo è la madre in questione, la bambina è a scuola quando arriviamo noi in
casa, rientra poco dopo, quando abbiamo appena finito di mangiare. Torna e comincia a
distribuire baci un po’ a tutti: alla madre, ad Asmerat, a Letai e giunta a noi ci saluta con un
grosso sorriso. Si siede su una poltroncina, spodestando un gatto pigrone, e anche lei pranza.
Terminato il rito del caffè salutiamo Asmerat, Halemikel ci è venuto a prendere col jeeppone
per portarci alla nuova casa in affitto; saliamo a bordo: Claudio davanti e io dietro con Letai, la
donna e la bambina. Arriviamo ad un edificio un po’ isolato dal resto del villaggio,
attraversiamo un piccolo cancello ed un cortile ed entriamo in una stanza completamente
vuota. Le pareti celesti sono spoglie, sulla parete più grande è scritto con gessetto bianco
l’alfabeto inglese. Nessuna finestra, nessun mobile, nessuno scaffale, neanche un letto. In un
angolo una coperta distesa a terra fa da letto, terra battuta senza altro rivestimento. Ci sono
anche degli stracci e delle buste ammucchiate e NIENT’ALTRO. Inevitabilmente penso alle
nostre case strabordanti di oggetti inutili e inusati. Ripenso ai giochi che avevo da piccola,
tanti, troppi. La bambina non ha nemmeno la divisa completa per andare a scuola, Asmerat le
ha regalato il pezzo di sopra.
Non ha niente, eppure è contenta. Non ha un letto, non ha un gioco, ha solo quel bel sorriso
stampato in faccia. Esco dalla casa consapevole di qualcosa che sapevo, ma che avevo
dimenticato: la felicità non nasce dal quel che abbiamo fuori, ma da quel che abbiamo dentro.
La piccola famigliola, questa coppia femminile, è un gioco di contrasti: alla vivace allegria della
bambina si contrappone lo sguardo vuoto della donna; la speranza e la rassegnazione.
Il cielo è limpido, come sempre in questi giorni, mi chiedo come possa un soffitto così perfetto
osservare immobile e intatto la sofferenza di questa terra.
Nel pomeriggio accompagno Claudio ad un’altra spedizione. Questa volta si tratta di una
donna divorziata con tre figli piccoli da mantenere. Da quel che spiega Letai, in caso di
divorzio, i bambini vengono affidati alla madre e il padre solo in pochi casi contribuisce
economicamente al mantenimento dei figli.
Oltrepassiamo Mekelle e imbocchiamo una strada sterrata. Sui cigli della strada camminano
donne, muli e bambini. Alcuni trasportano bidoni ripieni d’acqua, altri fascine di legna. Tanti
ragazzi sono in divise colorate, tornano da scuola. Raggiungiamo infine un villaggio in piena
campagna. Il nostro arrivo è accolto da una marea di bimbi che ci corrono incontro,
guardandoci incuriositi.
Le case sono tutte costruite in mattoni di pietra, a differenza di Quiha qui non c’è traccia di
cemento, al suo posto viene usato lo sterco. I tetti sono in lamiera. Letai ci guida in una delle
case, ci facciamo strada tra i bambini che si affollano per stringerci la mano, ridono. Ci accoglie
una donna dall’aria stanca, ci sorride e ci fa entrare. Ci mostra i suoi tre bambini: il più
grandicello avrà otto anni e si fa avanti spavaldo, lo segue il secondo, poco più piccolo, mentre
il terzo, che avrà tre/quattro anni è piuttosto diffidente e preferisce restare attaccato alla
gonna della madre.
Anche qui ci viene offerto il caffè, insieme agli assidui pop corn.
La casa, costituita da un’unica stanza, nella sua povertà è curata nei particolari. Ormai
l’assenza di pavimentazione non mi stupisce più, la mia attenzione viene piuttosto attirata da
l’unico mobile presente, una libreria con ante a vetri nella quale sono riposti gli oggetti più
preziosi: servizi di piatti e tazzine colorati, vasetti decorati, altri monili non meglio identificati.
Su di una parete c’è un poster con l’alfabeto tigrino, ogni lettera ha un disegno.
Dei bambini del villaggio ci sbirciano dal cortile su cui affaccia la porta aperta, se li guardo si
nascondono dietro al muretto, ma appena mi rigiro si riaffacciano curiosi, mi sembra di
giocare a “un, due, tre, stella!”.
Prima di andare immortalo Claudio con la sua seconda famigliola.
Il sole sta tramontando quando lasciamo il villaggio a bordo della jeep. Accompagnata a casa
Letai, proseguiamo per le strade buie di Mekelle; mi appisolisco nonostante gli sballottamenti.
“Attento!!!!!!” grida Claudio, segue una sterzata violenta, mi affaccio al finestrino e mi rendo
conto che stavamo per fare un frontale con un’altra jeep. Halemikel, all’incrocio, ha preso la
curva un po’ stretta, decisamente troppo stretta.