“In missione servono Saggezza e Responsabilità”: la lezione umanitaria di Massimo Coletti

Da dieci anni, Massimo Coletti, Professore presso la Chirurgia d’Urgenza del Policlinico Umberto I di Roma, raggiunge periodicamente Quihà, piccolo centro sull’altopiano del Tigray alle porte di Mekelle, per condurre alcune delle missioni che Lazio Chirurgia Progetto Solidale organizza all’ospedale Hewo. La prima volta è stata nel gennaio del 2007 con un anestesista, una ferrista del San Camillo e due “fedelissime” collaboratrici.
Inizialmente, racconta, il movente è stato “egoistico”: “Si scende dall’aereo o perché si vuole venire in questo posto oppure perché si vuole fuggire da un altro … In quel particolare periodo è stato un mezzo per [affrontare] un momento di défaillance e appagare un piacere … per fare una cosa che mi desse la possibilità di essere felice”.
Ma la spinta “personale” non basta affinché una esperienza occasionale si muti in un impegno costante capace di fare realmente la differenza nella vita e nel futuro di una comunità. “Poi ci si rende conto che c’è dell’altro …. Il piacere cambia motivazione: pensi di venire per dare qualcosa [ma] in effetti è tutto il contrario, sono [le persone qui] a dare qualcosa a te”.
Quanto è importante per un medico, per un chirurgo, prendere parte a missioni come queste?
Questa professione ti dà la possibilità di provare una emozione. Venire qui come turista è una cosa, venire qui, fare il chirurgo e calarsi nella realtà sociale e umana è un altro paio di maniche. La tua professione in quel momento è uno strumento in più, è qualcosa che ti offre la possibilità di fare un’esperienza che altrimenti non [sarebbe possibile] … Quello che motiva gli altri colleghi a fare queste esperienze [all’estero], non voglio essere cattivo, ma è quasi sempre di natura professionale pura. Vogliono venire per “fare”, per lavorare, per esercitare il loro saper fare.
“Non voglio essere cattivo”, perché? Quale deve essere la motivazione?
Non può essere solo quella professionale pura. Posso accettare l’invito di una postazione sanitaria chirurgica perché so che hanno bisogno di me in quel posto: so che andrò a fare una grande esperienza di tipo chirurgico, ma so anche che andrò ad appagare una richiesta … Ci sono coloro che [partono] soltanto perché si devono fare la mano.
Lavorare qui cosa richiede?
In posti dove non hai le comodità a cui sei abituato per muoverti in sicurezza, devi far ricorso al tuo sapere e alla tua saggezza. Ricordo perfettamente di aver operato, all’inizio di questa esperienza nel 2007, un caso disperato, un giovane uomo leucemico, in crisi leucemica, con una splenomegalia enorme che non ce la faceva a respirare. Ho eseguito un intervento importante che è finito male perché il paziente è morto nonostante io gli abbia dato il mio sangue durante l’intervento, in diretta. Mi sono reso conto che era inutile se non hai tutti i supporti. Ed è una cosa pericolosa perché così vai ad alterare quel rapporto di fiducia che le persone hanno stabilito con te: pensano che tu lo operi per salvarlo e invece lo fai morire, e questa è una cosa che qui non accettano. Si deve venire con saggezza, oltre che con il saper fare, per capire quello che si deve e quello che non si deve fare. Facciamo un discorso banale, terra terra: a una donna a cui, se fosse in Italia, avrei fatto un tiroidectomia totale e sarebbe andata poi in follow-up farmacologico, non posso fare [l’intervento] perché siamo qui lei non ha i mezzi, non ha modo [per proseguire la terapia] e gli renderei la vita impossibile, se non un nocumento. E’ questa la saggezza – oltre al saper fare che è fondamentale – perché qui lavori senza paracadute e senza rete sotto …I pazienti aspettano l’impossibile e se tu sbagli li hai feriti a morte.
Come la donna che ha riferito che nel suo paese non si vogliono più operare perché lei non è stata guarita negli ospedali locali …
Non bisogna sbagliare il tiro perché qui il peso dell’errore non ha lo stesso peso che ha in Italia – legale, giudiziario – ma ha forse una ricaduta globale sul tessuto sociale. La cosa importante di questo lavoro è l’aver acquistato questo senso di responsabilità, non voglio dire di sentimento … La cosa importante é far bene perché le persone si aspettano da te l’impossibile, o comunque quello che gli altri non sono riusciti a fare, o la soluzione di un problema che per loro è grave.
I rischi sono dunque estremamente alti.
Assolutamente si. Da questo punto di vista non ho grandi problemi perché provengo da una tipologia di lavoro che è rotta a tutte le esperienze, vengo da una chirurgia d’urgenza e onestamente non ho tanta paura di niente. Mi rendo conto, comunque, che non devo dar prova di quello che so fare qui: devo dare un prodotto che sia il migliore possibile per la morale e la mentalità di questo luogo.
Cosa pensa di aver imparato in questi anni?
… Una cosa molto importante è il rapporto [con il gruppo dei volontari], questa comunità che parla e che quasi maieuticamente ti fa uscire delle cose, che ti fa aprire la cassapanca di ricordi, che ti fa parlare. Il gruppo è molto importante. Questo ambiente umano è piacevole, considerando anche il fatto che ormai vengo sempre con i ragazzi [specializzandi] perché ho cercato di dare questa impronta a queste mie [missioni].
Lo faccio per loro perché ritengo che questa sia la missione. Mi piace che provino questa esperienza e [nelle due settimane] cerco, con la mia presenza, con quello che so fare, con quello che anche Giorgio Pasquini fa per loro, di fargli assaporare [qualcosa] di differente, un metodo differente di disciplina, di accademia e che è molto più bella, molto meno vessatoria, molto più piacevole. Lo faccio per loro perché ritengo che una delle cose belle della mia professione è quella di trasmettere … Nella mia vita ho due obiettivi: i miei pazienti e i miei ragazzi, e li coltivo tutti e due pariteticamente … Mi sento di essere responsabile nei loro confronti ed è per questo lo faccio. …
Quali sono le ragioni per le quali vale la pena portare delle persone così giovani qui?
… La tipologia di pazienti qui è ovviamente differente da quella a cui noi siamo abituati. Qui c’è un atto di fede, loro si affidano completamente a noi, con il sorriso e con il ringraziamento. Noi ormai viviamo in un mondo di diffidenza, di preconcetti, il rapporto con il paziente è un rapporto difficilissimo. Esco da una esperienza, per me drammatica, due giorni prima della partenza, legata ad un rapporto difficile con dei parenti. [I ragazzi] devono pensare che non tutto il mondo è come quello … E’ una esperienza.…E’ l’idea di gettare un seme [anche se] può darsi che non cresca mai quella pianta.
Quante piante ha visto crescere nella sua carriera?
Una della cose più belle della mia esperienza professionale, al di là dell’aspetto tecnico, è quello di avere dei ragazzi che ormai hanno quarant’anni, che vengono a bussare alla mia porta per raccontarmi i loro problemi. Uno mi ha mandato un messaggio l’altro giorno, mi ha cercato. Gli ho risposto: “Sono in Etiopia”. E lui: “Al ritorno cena, ok?” Quarant’anni! O quello che viene e mi dice: “Ho problemi con mia moglie”. Vuol dire che questo rapporto è andato oltre.
C’è un problema di ricambio in generale, non soltanto nell’area medica, nell’organizzazione?
[Nella chirurgia] il sistema italiano è un sistema assolutamente drammatico da questo punto di vista perché non mette in condizioni i giovani di poter acquisire una maturità professionale in un tempo utile …
Diventa ancora più difficile nel momento in cui, calandosi nella nuova mentalità dei cosiddetti giovani, ci si rende conto che questa generazione, non voglio dire che è egoista, è egocentrica. E quindi, non fa niente per niente.
Qui però qualcosa in cambio ce l’hai …
Bisogna essere stati educati a capire il sapore di queste cose … [Comunque] di tanti ragazzi che ho portato tutti serbano un ricordo bello complessivamente, sia chirurgico, che umano, ambientale e vorrebbero [tornare]…. Sicuramente ti lascia dentro qualche cosa. La vita, però, ormai li porta a essere così attaccati, soprattutto chi ha una personalità forte, alla professione, alla carriera. [ Le missioni?] “si è bello, ma ancora non me lo posso permettere”. E’ come: “non posso fare un figlio perché non me lo posso permettere” …
C’è qualcosa che in questi dieci anni l’ha stupita, che L’ha toccata particolarmente?
In questi dieci anni ho maturato in maniera ingravescente un senso di responsabilità più maggiore rispetto all’inizio nei confronti di queste persone, una preoccupazione di fare le cose bene, di non aver recato danno perché so che loro sono in buona fede, che si fidano di te. Questo è un giuramento di sangue, è qualche cosa che forse non si può capire, ma è così. Personalmente, devo dire, lo stesso rapporto ce l’ho con i miei pazienti in ospedale a Roma, con i quali, però, ho un diverso rapporto di responsabilità perché [diverso è il rapporto medico-paziente in Italia].
L’esperienza della missione permette di essere medico in un modo diverso?
E’ quello che dovrebbe essere, quello che ti piacerebbe fare. Fare quello che vuoi fare, senza troppe sovrastrutture. La sera via a letto stanco. La responsabilità è solo curare quella persona. Vai a letto, ti svegli la mattina, prendi il caffè, vai in sala operatoria, operi, hai un rapporto civile, normale, lo fai con il massimo dell’impegno e con grande responsabilità, e se hai dentro quel senso morale, lo fai con maggiore responsabilità sapendo che le [persone qui] si sono affidate con quegli occhi a te.
I medici possono sentirsi molto “grandi” in un contesto come quello che Lei descrive, mai voi sembrate piuttosto molto “piccoli”.
Io mi sento molto più piccolo qui di quanto non mi senta a Roma …. A Roma, impersonifichi un ruolo che ti spetta e che devi eseguire secondo quei canoni, [per esempio] se non arrivo io non si fa la visita. Qui invece no, è differente, qui fai tutto quello che pensi che sia giusto fare perché il prodotto sia veramente buono e ci metti tutto te stesso perché se sei qui sai che c’è poco del resto che a Roma concorre alla produzione del prodotto.
Perché le persone in Italia dovrebbero sostenere questa attività? Perché ha senso continuare?
Perché ancora c’è la necessità del nostro operato. [Però] io sono dell’idea che nel momento in cui ci si dovesse rendere conto che questa nostra attività chirurgica non fosse più così importante, così necessaria, bisognerebbe lasciare il posto a qualcosa di più utile. E’ come un atto d’amore…
Finché ci sarà la necessità, finché ci saranno ancora tante persone [che avranno bisogno], tante “quanti i capelli che ho in testa” come ha detto una paziente, allora ci sarà un perché del mio scendere dalla scaletta dell’aereo. Se a un certo punto non ci fosse più, ma invece bisognasse cercare di mandare avanti, per esempio, la chirurgia pediatrica, quello dovremmo fare, perché se loro hanno bisogno di questo, io devo fare un passo indietro. E’ normale. E’ il concetto banale della domanda e dell’offerta. Se la richiesta è quella, se noi vogliamo veramente bene a questo popolo, gli dobbiamo dare a quello che gli serve.
E’ fuor di dubbio, che oggi, sempre di più, e un po’ nel nostro piccolo apparteniamo a questo sistema, le organizzazioni vanno per richieste. Bisogna dare una risposta e quindi noi stessi, nel nostro piccolo, diamo una risposta ad una esigenza: in questo territorio c’è una patologia, nessuno se ne vuole occupare, non siamo in grado.
La tiroide? Perché non se vogliono occupare?
Perché non c’è proprio la cultura di questa patologia e c’è anche una certa diffidenza, paura per questo tipo di chirurgia, che indubbiamente è rischiosa per il chirurgo oltre che per il paziente. Puoi fare seri danni, dalle lesione delle vie aeree sino alle lesioni nervose ricorrenziali per cui il malato o non parla più o non respira più, rischia la tracheostomia o diventa afono. Possono essere interventi molto complessi, come del tutto usuali. Ma alla fin fine, quando vieni qui da dieci anni e nella casistica ne hai fatti 300 diventi un maestro.
La cosa più difficile nel suo lavoro qui?
Il rapporto più difficile, almeno quello per me, è con il personale. E’ difficile , però è anche presuntuoso pensare di calare la tua mentalità, la tua metodologia, in una mentalità, in una cultura che non è la tua e cha ha altri ritmi, altre [caratteristiche] … Forse l’errore è il tuo che ti aspetti delle cose dalle persone e dalla loro cultura che non può assolutamente rispondere ai tuoi desiderata. Forse questo è l’errore maggiore. La saggezza, è proprio lì, nel saper cedere al momento opportuno perché il sistema comunque cammini e vada avanti.
In futuro si potrà puntare sulla formazione?
L’obiettivo più sano e più saggio è quello della formazione. E’ quello che manca alla risposta sanitaria perché se si riesce dare una risposta sanitaria operando, si deve comunque fare in modo di trasmettere il know-how [al personale] perché cresca in maniera adeguata. Non per dare poi a noi modo di lavorare bene, ma perché è giusto che si arrivi a quel target di qualità assistenziale.
Il problema è grosso. [E’ necessaria] una continuità.
Non si è mai trovato nella condizione di domandarsi “perché sono venuto”? Ha incontrato delle difficoltà nelle relazioni con il luogo, nel lavoro?
Si, certamente. La difficoltà esiste, la difficoltà diventa più evidente con il passare degli anni perché è un fatto fisiologico. L’ippocampo, che è l’area della personalità, si rimpicciolisce e ti fa essere sempre meno duttile, sempre meno accomodante, per cui il vecchio è come il bambino, capriccioso il bambino e capriccioso il vecchio. Perché? Perché l’ippocampo all’inizio non è sviluppato e poi diventa più piccolo. Maturi e a un certo punto hai delle situazioni personali che ti porti appresso, calate nella difficoltà locale, e allora ti chiedi che “cosa sono venuto a fare?”. Gli impegni, le mille cose che hai lasciato … E’ sempre più difficile ricavare questi quindici giorni per venire, quindici giorni in cui devi organizzare tutto, devi lasciare tutto in ordine, in cui i problemi ci sono, e se qui hai un problema si somma alla preoccupazione di Roma. Però poi, questo posto, a quest’ora, chiacchierando, con la musica, ti fa dimenticare molte cose.
C’è una qualcosa che Le piace particolarmente di questo luogo. Un profumo, una sensazione?
Il rumore del silenzio. L’Africa si spegne con il sole. Il brusio si riaccende quando sorge.
Cosa porta con sé al ritorno?
Porto sempre ad esempio quello che mia madre, che ormai ha 97 anni, e che vado a trovare appena rientro, mi dice. Mi guarda e mi fa: “ma tu non sei andato a lavorare, tu sei andato in vacanza, stai benissimo”.
Sente che ciò che fate serve?
Se non avessi questa convinzione non verrei.