Ricominicare dopo la guerra, diario della prima missione

Per arrivare a Mekelle il viaggio è lungo, ma è andato come sempre, “faticoso, anche se senza intoppi”*. Questo, però, non è un viaggio come gli altri: torniamo all’Ospedale Hewo dopo diversi anni e torniamo in un Paese, l’Etiopia, che non è, invece, quello di sempre.

Le ferite della guerra che si è combattuta dal 4 novembre del 2020 in Tigray sono profonde, a segnare i cuori e la terra, le menti e gli spazi. Tutto è da ricostruire, anche se l’Ospedale Hewo, l’asilo e le strutture della comunità sono in piedi.

Le vite spezzate, quelle, invece, non torneranno.

“Al nostro arrivo siamo stati accolti da una folla festante. C’era il nostro personale e quello dello Stato, i pazienti, soprattutto i bambini dell’asilo. Che, però, alle dodici tornano a casa perché non ci sono i fondi per dar loro da mangiare come in passato. Ho chiesto a Letay – la direttrice dell’Ospedale – di utilizzare una parte dei soldi che ho portato per riaprire la mensa fino alla fine dell’anno scolastico. Almeno un altro mese. Per il futuro credo che questa sia una priorità nel destinare i fondi delle donazioni”, racconta Giorgio Pasquini, presidente di Lazio Chirurgia Progetto Solidale.

Pochi i pazienti ricoverati, solo undici, anche se i bisogni della popolazione sono immensi, ma qui è tutto da rimettere in moto. Il blocco dei voli – che ci ha impedito in questi anni di raggiungere il Tigray – quello delle comunicazioni, e quindi il trasferimento del denaro, hanno avuto conseguenze pesantissime. Nel corso del conflitto siamo riusciti ad inviare attraverso la Croce Rossa, quasi alla fine delle ostilità, risorse per pagare gli stipendi del nostro personale, ma quello statale che lavora nella nostra struttura nei servizi di competenza del sistema sanitario locale, invece, non ha di che vivere. “Il problema vero è il mancato pagamento degli stipendi pubblici da molti mesi, forse anni. Abbiamo anticipato a titolo di prestito circa novemila birr a testa per tutti, anche se con molta probabilità non li avremo indietro”. Poi, c’è il problema dei trasporti: spostarsi è difficile e molto costoso. “Hewo Modena ha promesso l’acquisito di un pullman. Nel frattempo ne abbiamo affittato uno”.

Appoggiato ai piedi di una collina, l’ospedale un tempo era un giardino, le rose nella piazza su cui si affacciano le corsie, l’azienda agricola a produrre verdure e frutta. Al nostro arrivo, però, manca l’acqua e il rifornimento avviene con i secchi dalle cisterne.

Anche per questo l’ospedale è sporco – e i bagni sono tutti da rifare. È vero, però, che il personale un tempo impegnato nelle attività agricole e nella maglieria non ha più modo di lavorare come prima della guerra, e allora verrà destinato a tenere il più possibile pulita la struttura, alla lavanderia, alla potatura degli alberi e delle siepi.

“Faremo una revisione complessiva sia degli impianti idrici che di alimentazione elettrica”. Intanto, però, ad un primo sopralluogo capiamo che le pompe del pozzo funzionano, e che si arriva anche a 100 litri d’acqua al minuto. Il problema sta nell’alimentazione elettrica che le fa muovere perché sono stati tranciati i cavi lungo la strada esterna. “Abbiamo dato mandato all’ingegnere di ricostruire l’impianto”, questa è la prima cosa. Neppure il gruppo di continuità della sala operatoria funziona e dal momento che la luce va spesso via, prima di riprendere le attività chirurgiche è indispensabile ristabilire anche l’alimentazione d’emergenza”.

Si ricomincia dall’essenziale, dalla luce, dall’acqua.

L’Ambulatorio lavora molto bene, ma come in tutta la regione anche qui mancano i farmaci e non si può fare molto. Per far ripartire la chirurgia, invece, servirà uno grande sforzo: “Piove nelle stanze di sterilizzazione e dovremo fare una verifica del tetto. Il frigorifero non funziona, ma ne compreremo uno nuovo. Abbiamo donato tutto il materiale chirurgico in scadenza perché non vada sprecato, quindi quando riprenderà l’attività bisognerà spedire con il container tutto ciò che serve. Riparata l’autoclave a secco, di quelle a vapore ne è attiva solo una: bisognerà inviarne un’altra”. Prima della guerra avevamo immaginato di poter mettere a disposizione la nostra sala operatoria anche ai chirurghi della sanità pubblica, una collaborazione che potrebbe essere uno scambio positivo nel momento in cui si tornerà pienamente operativi.

A pagare le conseguenze del blocco e della mancanza di approvvigionamenti in questi anni di guerra, anche l’attività diagnostica: “Attualmente si fanno gli esami microscopici ed alcuni test rapidi. I test molecolari per il BK vengono inviati al centro di riferimento regionale”. Non è possibile verificare se tutto funziona, perché mancano i reagenti, pochi quelli reperibili localmente, ma gli strumenti ci sono. “Ove si potesse rifornire dall’Italia adeguatamente di reagenti ed accessori, il laboratorio potrebbe riprendere a pieno regime”. Ugualmente serviranno materiali anche per la Dental Room, dove il riunito non funziona, e “che è stata chiusa per alcuni mesi perché gli odontotecnici sono stati dislocati altrove. La dottoressa è tornata da poco e l’attività al momento consiste solo nelle estrazioni”.

Tutto è da ricostruire nel nostro ospedale perché tutto è da ricostruire in Tigray. “Nessuno degli ospedali di Mekelle è in grado di lavorare come prima della guerra, ma almeno stanno in piedi. In altre località della regione, invece, le strutture sanitarie sono state bombardate e sono inattive”. In assenza di disinfettanti, le ferite vengono trattate con acqua bollita e sale, e quando non ci sono garze si utilizzano le sciarpe delle donne fatte a pezzettini. La sanità pubblica non ha risorse, e allora si paga tutto, tantissimo, dagli esami, ai medicinali – i pochi che ci sono – al ricovero, al cibo, alle medicazioni. “Quindi l’ospedale pubblico è quasi deserto perché la gente non ha i soldi per curarsi”. Ed è tornata a crescere l’incidenza di malattie che stavano scomparendo o diminuendo: “In questi ultimi anni vi è stato un aumento incredibile delle malattie infettive, è ricomparsa la lebbra, che in precedenza sembrava sconfitta, perché non ci sono medicine; sono aumentate tubercolosi, malattie sessualmente trasmissibili, come HIV e sifilide. La lesmaniosi è diventata un problema, così come la rabbia a causa dell’aumento del numero dei cani randagi, ed infine la malaria, che in Tigray era quasi inesistente, c’è di nuovo”. Per questo, abbiamo una priorità: il potenziamento dell’infettivologia, che da sempre caratterizza il nostro ospedale – Hewo, da Hansenian, la malattia di Hansen, la lebbra – con l’obiettivo di aprire anche un centro vaccinale.

Il capitolo più difficile da affrontare in questo viaggio è stato, però, quello che raccoglie le pagine della memoria, il racconto dell’orrore e delle conseguenze della guerra che ha causato un numero imprecisato di morti – qui, si dice, circa 800 mila – e di feriti, stupri di massa, efferatezze indicibili. Ci raccontano che nell’utero di una donna in fase di aborto è stato ritrovato un bigliettino scritto da uno stupratore e in più casi, chiodi. “C’è un enorme aumento della mortalità neonatale, di cinque volte, delle fistole vaginali” e di tutte quelle patologie legate alla violenza sessuale. Anche tra il nostro personale c’è chi deve fare i conti con il dolore di aver perso i propri cari e con la paura. “C’è chi racconta di aver ricominciato a dormire solo da poco perché il rumore dei droni era infernale”. Esplicite le parole di alcuni sull’inutilità della guerra: “Perché questi morti e questi problemi? I problemi sono tutti rimasti, non risolti. Parole loro”.

Almeno qui, però, possiamo riabbracciare tutti coloro che abbiamo salutato nella nostra ultima missione e che abbiamo temuto di non rivedere. Jerusalem, la figlia di Asmerà, la nostra infermiera di sala operatoria, sta bene. “Le ho portato come al solito un pacco di caramelle e quaranta scatole del farmaco che le è necessario”. Anche le altre figlie stanno bene: “Una si è laureata in infermieristica e in questi anni si è dedicata esclusivamente ai feriti, da poco ha ripreso l’attività di base”.

Nonostante tutto, ad uno sguardo superficiale, Mekelle, capoluogo del Tigray, si mostra non troppo differente da quella che abbiamo lasciato. “In apparenza la situazione sembra molto simile ai nostri precedenti viaggi”. Non ci sono posti di blocco, diversamente da quanto accadeva nel 2019 con la guerra alle porte: “Abbiamo visto solo una camionetta con militari armati. Mi ha molto colpito l’aspetto di enormi quartieri in costruzione rimasti tali per l’impossibilità di reperire materiale. Niente di diverso rispetto al passato per quel che riguarda il traffico caotico e disordinato, compresi cavalli, somari, mucche, capre che camminano in mezzo alle strade, anche di grande circolazione. Abbiamo verificato, però, con i nostri occhi lo stato di degrado muovendoci in città e nei dintorni”.

Mancano acqua e luce in ospedale, ma non è solo per questo che non abbiamo dormito lì, come sempre, nella casa bianca che guarda l’altopiano, con un albero che cresce nel cortile. Ad essere aumenta, la criminalità, in particolare i furti nelle case. “Ci hanno mandato in un albergo con personale di sicurezza perché i reati avvengono prevalentemente di notte”. Conseguenza anche di una povertà che ha raggiunto le stelle. Non c’è cibo e qui sussurrano che si deve pagare il ‘pizzo’ per mangiare, ma che paradossalmente gli unici rifornimenti ad arrivare regolarmente sono le birre. “Il costo della vita è in aumento vertiginoso: la crescita degli affitti ha costretto molti a diventare dei senzatetto”. Anche per questo dovremo fare ancora di più, dare ciò che serve adesso, per esempio “caratterizzando la pediatria con la lotta alla malnutrizione” e rendendo sempre più efficace l’assistenza ai più fragili. È per questa ragione che siamo felici di vedere che a dispetto delle difficoltà, i lavori per la nuova “Casa delle donne” procedono spediti, grazie alla donazione della Fondazione Anna Milanese. Donne abbandonate, malate, con figli da crescere: questa è sempre stata un’emergenza e il nostro è un progetto che non ha mai smesso di lavorare, ma che ora avrà a disposizione una nuova struttura, una casa vicina all’asilo, capace di ospitare sei donne con i loro bambini fino a quando non saranno autonome.

Un’emergenza, gravissima, quella che vive il Tigray, visibile nel paesaggio intorno a Mekelle, dove l’altopiano è casa di fortuna per chi è fuggito da villaggi e piccoli centri, e non sa quando potrà tornare a casa. “Siamo andati a visitare [i campi porfughi] solo dall’esterno perché entrare è sconsigliato. Migliaia di persone vivono sotto una tenda, senza acqua né luce, pieni di bambini senza prospettive per il futuro. Ne abbiamo visti due, ma ce ne sono molti altri, alcuni ci hanno detto essere dislocati soprattutto nelle scuole. Per questo motivo l’attività didattica è sospesa”.

Il Tigray, non è, però, l’unica parte dell’Etiopia ad essere cambiata.

Addis Abeba è una città soffocata dallo smog, dal traffico caotico e intenso, dalla povertà urbana diffusa, con mendicanti ovunque, ma piena di quartieri in costruzione dove ci raccontano della paura e della violenza alimentata dall’odio etnico in questi anni di guerra. “C’è chi è stato chiuso in casa senza mai uscire per tre mesi” per il timore di essere preso e deportato. ‘Non si sa dove, molti non sono mai tornati’, dicono. Paura che è memoria di un’altra guerra, quella combattuta con l’Eritrea, decenni prima, quando si scappava, a piedi, guadando il fiume al confine, con i figli in braccio. Memoria di campi profughi e miseria, allora, come oggi, in una terra senza pace.

Di ritorno dal Tigray, la nostra destinazione avrebbe dovuto essere Garbo, in Oromia, dove l’Hewo si occupa di un asilo ed altri progetti, ma ci siamo fermati qui, ad Addis. Non è stato possibile muoversi, troppo pericoloso perché anche lì si combatte. “Oltre all’Oromo Liberation Army – ci raccontano – il territorio pullula di numerose altre milizie armate e fuori controllo, difficili da distinguere dalla criminalità comune. I rapimenti lampo lungo le strade con richieste di riscatto sono frequenti”. Viaggiare in alcune parti dell’Oromia è sconsigliato anche dalla nostra ambasciata cui abbiamo avuto un colloquio, in cui l’Agenzia italiana per la Cooperazione ha espresso la necessità “di essere messa a conoscenza delle organizzazioni che operano in Tigray a scopo umanitario … In questa fase storica l’Agenzia vuole razionalizzare, potenziando l’aiuto in Tigray”. Una fase, quella post-conflitto, in cui il nostro ospedale, uno dei pochi italiani in Etiopia, dovrà dare il suo contributo.

Come per il Tigray, anche quella che si combatte in Oromia e che ci impedisce di lasciare la capitale, “è una guerra senza senso che non porterà a nulla se non un ulteriore aggravamento delle condizioni già miserevoli della popolazione civile. Unica notizia positiva è la convocazione fra due o tre settimane di una conferenza di pace fra Oromo e Governo federale”. A questa speranza ci aggrappiamo, qui, ad Addis, dove si ferma il nostro viaggio. Fermo sull’orlo di un altro abisso d’orrore o di una nuova pace.

 

*Passi tratti dal diario di missione di Giorgio Pasquini, presidente di Lazio Chirurgia Progetto Solidale. Tutti i nomi delle persone con cui abbiamo parlato sono stati omessi in via precauzionale dato il perdurare di tensioni in tutto il Paese.